02/09/2004
Intervista a Lilya Zilberstein
„Mi immagino il paesaggio russo...“
Lilya Zilberstein, nata a Mosca nel 1965, si è esibita la scorsa Domenica nell’ambito del Festival Pianistico Internazionale Ferruccio Busoni, in un concerto per pianoforte solo, riscontrando un ampio successo di pubbico. Il programma della serata prevedeva opere di Clementi, Liszt e Rachmaninov. La celebre pianista racconta il suo rapporto speciale con il pubblico bolzanino, il significato che ha avuto per lei la vittoria del premio Busoni e il suo amore per il compositore Rachmaninov.
Signora Zilberstein, lei è sicuramente una delle artiste più amate dal pubblico bolzanino. Quanto influisce l’entusiasmo del pubblico nei suoi confronti sulle sue esibizioni nella nostra città?
Normalmente il pubblico non esercita grande potere su di me. Quando suono mi sento completamente indipendente dalla gente seduta in sala. Devo dire però che Bolzano è un’eccezione. Qui mi sento come a casa mia. Suonare a Bolzano mi crea sempre un’immensa agitazione. Ritorno ad essere la giovane Lilya, di 22 anni, quando nel 1987 è arrivata per la prima volta nel capoluogo altoatesino. Anche la sala del Conservatorio ha un significato particolare per me. Suonare la scorsa settimana qui è stato un po’ stressante, vista la competenza del pubblico, composto tra gli altri dai membri della giuria del Concorso Busoni, dai candidati , critici ed amici. Comunque in generale cerco di dare il cento per cento in tutte le mie esibizioni.
Cosa significa per lei il primo premio del Concorso Busoni? Per me ha significato l’inizio della mia carriera. Senza il premio Busoni la mia vita potrebbe essere oggi molto diversa. Nell’Unione Sovietica ho preso parte a molti concorsi, ma non ho mai vinto. Poi si è presentata la possibilità di partecipare al Concorso Ferruccio Busoni. Era l’unica occasione per me di uscire dall’Unione Sovietica. Non credevo certo di vincere. Per me era più un modo di presentarmi ad un pubblico diverso. Alla fine ho ottenuto il primo premio e la mia vita è cambiata.
Come si avvicina ad un’opera? Si dedica inizialmente allo studio della composizione, studiandola da cima a fondo, oppure prende prima in considerazione la personalità del compositore, cercando di comprendere il sentimento con cui è giunto a quell’opera?
Con l’opera di Rachmaninov ad esempio ho un rapporto del tutto particolare. Ho suonato tutto ciò che ha composto. Conosco la sua musica più di qualunque altro brano. Sono molto legata a questo compositore. E’ come se fosse una parte di me, nel suonarla la sento mia, come se fossi stata io stessa a comporla. Nel preparare un’opera l’intuizione svolge un grande ruolo. Personalmente immagino di attraversare paesaggi della mia terra, di incontrare persone della mia città.
C’è un’opera di un compositore, che a tuttoggi non ha ancora preso in considerazione ma con la quale vorrebbe confrontarsi in un prossimo futuro?
Rispetto a questo punto non vorrei al momento citare alcun compositore in particolare, bensì ampliare la risposta a tutta la musica contemporanea in genere, con cui fino ad oggi mi sono cimentata poco. Ad esempio Schnittke, Gubaidulina, Berio: sono tutti autori che vorrei conoscere meglio. Durante il mio periodo di formazione in Russia non mi sono mai confrontata con compositori moderni.
Suonare il pianoforte per mestiere non rischia di trasformare una passione in una routine stressante?
E’ come quando si cammina e non ci si rende conto di camminare. Anche quella è routine: si fa o si deve fare. Con il pianoforte il discorso è analogo. Credo che se si suona con il giusto sentimento, il giusto trasporto, non si possa avere la sensazione della routine.
C’è qualcosa oltre alla musica, che le da la stessa gioia, che reputa altrettanto importante per il suo equilibrio personale?
Si la mia famiglia. I due bambini e il mio uomo sono decisamente importanti quanto il pianoforte.
Intervista: Verena Gruber
26/08/2004
„Dopo la vittoria del Busoni mi sono sentita una pianista professionista“
Incontriamo la pianista americana Ursula Oppens, una delle grandi protagoniste del Festival Pianistico Internazionale Ferruccio Busoni, che eseguirà, nel concerto del 27 Agosto prossimo, un’opera di Elliot Carter dal titolo „Dialogues“, insieme all’Orchestra Haydn diretta da Ola Rudner in una prima italiana.
Signora Oppens, nel lontano 1969 è stata eletta vincitrice del Concorso Pianistico Busoni, mentre tre anni fa è tornata nella nostra città in qualità di membro della giuria dello stesso Concorso. Come ha vissuto questa particolare inversione di ruoli, questo passaggio da candidata a giurata?
Ogni volta che mi trattengo a Bolzano rimango colpita dalla natura, dal paesaggio e dall’architettura della città. Qui è tutto meraviglioso. Io penso che questa mia percezione della città abbia contribuito alla vittoria del premio. Mi è piaciuta così tanto l’esperienza e sono stata così fortunata, che questa mia gioia probabilmente sono riuscita a trasmetterla alla giuria. Il Ferruccio Busoni è stato il mio primo importante premio internazionale. Al tempo non arrivavo direttamente da New York, bensì studiavo da Guidi Agosti presso l’Accademia Chigiana. Il candidato ha normalmente una visione del giurato un po’ alterata. E’ successo anche a me. Come membro della giuria non ho mai sentito quel potere di decidere per il successo o l’insuccesso altrui. Come concorrente ho sempre pensato che una giuria si potesse sentire forte, sovrana, insomma con il coltello dalla parte del manico. Quando ho fatto parte della giuria ho sentito il peso di questa grande responsabilità, che mi ha reso però spesso indecisa. Durante un concorso si ha modo di assistere all’esibizione di così tanti ottimi musicisti, che si ha quasi l’ansia di esprimere un giudizio non equo. Sicuramente il candidato non percepisce la difficoltà di una giuria di „scegliere“. Una giuria deve basarsi molto sull’intuizione. A volte capita che ci si renda conto solo alla fine di aver avuto una percezione iniziale errata.
Come ha cambiato la sua vita la vittoria del Busoni? Cosa è cambiato nell’arco di trent’anni?
Il premio Busoni ha cambiato molto il mio ruolo di pianista, o meglio la mia consapevolezza di essere una pianista completa. E’ stato come prendere il dottorato. Ovviamente al giorno d’oggi ci sono molti più concorsi rispetto al 1969, ma nonostante questo penso che sia comunque importante parteciparvi e cimentarsi con questa particolare esperienza. Probabilmente trent’anni fa il Busoni aveva un’importanza ancora maggiore, essendoci molti meno concorsi e quindi meno possibilità. Ma questo non toglie valore oggi alla manifestazione.
Un particolare legame artistico la lega al componista emricano Elliot Carter....
Ho suonato la prima composizione di Carter nell’anno 1966 – un quartetto per flauto, oboe, cello e cembalo. Il suo lavoro con il passare degli anni è giunto ad una maturazione sempre maggiore, ad una chiarezza e purezza tali da renderlo perfetto, anche da un punto di vista emozionale. Amo tutto ciò che ha composto Carter. Penso che un’opera come “Dialogues” sia per molti ascoltatori, che non si sono mai approcciati prima all’opera del compositore americano, un lavoro molto adatto per avvicinare il pubblico all’autore. Il brano conquista grazie alla sua semplicità, alla incredibile liricità che lo contraddistingue, oltre a presentare molti elementi virtuosi. Nel 1999 Elliot mi ha dedicato due opere per piano solo e un quintetto di pianforti che ho eseguito inieme all’Arditti-Quartett.
Nell’opera „Dialogues“ il pianoforte entra in dialogo con l’orchestra. Può raccontarci qualcosa di questo lavoro?
E’ un’opera perfetta per un’orchestra da camera con un organico classico come quello dell’orchestra Haydn. La composizione comincia con un meraviglioso solo del corno a cui subentra poi il pianoforte, che – cosa tipica per Carter – viene “utilizzato” per l’intera estensione della tastiera. Lo srtumento è molto presente in questo lavoro. E’ molto lirico, con uno Scherzo nel mezzo e un virtuoso Coda. Un’opera meravigliosa.
Quale importanza possono avere al giorno d’oggi i concorsi per i giovani pianisti?
I concorsi in generale sono molto importanti; sono un po’ una realtà a parte, un mondo a sè. Possono essere paragonati ad una forma particolare di concerto. Le audizioni sono generalmente aperte al pubblico, e certamente c’è un interesse all’ascolto di giovani talenti. Credo che siano anche democratici, in un certo qual modo. Ognuno ha la possibilità, se vuole, di presentare il proprio lavoro. C’è uno scambio continuo tra pianisti giovani e pianisti con esperienza. Chiunque ascoltando può farsi un’opinione propria sui singoli candidati. E soprattutto un concorso può essere un’ottima occasione di lancio per un musicista, un mezzo per trovare un buon lavoro come musicista professionista.
Intervista di Verena Gruber e Daniela Rodriguez
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